Su come il volume di Paola Agosti e Benedetta Tobagi mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha fatto riflettere

Roma, 4 aprile 1977. Manifestazione contro i violentatori di Claudia Caputi. @Paola Agosti
Due ragazze procedono lentamente su una Vespa 50. La prima, capelli scuri, ricci, guarda diritto davanti a sé e indossa una gonna lunga a fiori. L’altra, seduta dietro, sorride alla macchina fotografica. Ha un caschetto, forse castano chiaro, una borsa a tracolla di cuoio, come si usava negli anni Settanta, e un paio di jeans a zampa d’elefante. Sorridono, sembrano serene, mentre trasportano due bandiere con il simbolo femminista. L’obiettivo della fotografa le ha colte durante una manifestazione, a Roma, per l’8 marzo del 1976. Quell’immagine, così evocativa, campeggia ora sulla copertina del bellissimo volume di Paola Agosti e Benedetta Tobagi, Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi 2024, pp. 143, euro 35,00).
Le donne di ieri e di oggi
Da qualche mese quel volume è in bella mostra sulla mia scrivania. In cima alle pile dei libri da leggere che crescono di giorno in giorno, per assottigliarsi solo in quei weekend di affannoso riordino. Ma lui è sempre lì. Sopra tutti gli altri. In equilibrio precario, per via del grande formato (24 x 30 cm). Lo sfoglio, lo abbandono e poi lo riprendo, ipnotizzata da quegli scatti che mi ricordano il come eravamo della mia adolescenza. È la vivida testimonianza di un periodo di grandi fermenti, quando il futuro, per le donne, sembrava davvero un sentiero già ben battuto che si apriva a ogni possibilità, comunque un sentiero da percorrere tutte insieme. 49 anni dopo, appare archeologia. Eppure quei fermenti avevano letteralmente investito o, almeno, sfiorato milioni di donne. E dopo? Cosa è successo dopo? Perché è rimasta così tanto cammino ancora da fare? Perché, nonostante quei discorsi, che già ci sembravano realtà quotidiana – almeno per la mia generazione, che si è affacciata alla politica sull’onda di quelle grandi mobilitazioni -, viviamo tutt’oggi con quel timore di fondo non solo a girare da sole, la notte, per strada, ma anche a chiedere un aumento, a dire di no, come pure a ritrovarci discriminate per via della nostra età? Perché quel femminismo, di cui la mia generazione è stata tra le prime a beneficiarne, alla prova dei fatti (già, la vita adulta) lo abbiamo un po’ dimenticato, talvolta disatteso, finché le ultime leve, dal #MeToo in poi, non ci hanno dato una scossa?
49 anni dopo, appare archeologia. Eppure quei fermenti avevano letteralmente investito o, almeno, sfiorato milioni di donne. E dopo? Cosa è successo dopo?
Un periodo bellissimo
«È stato un periodo bellissimo» mi racconta Paola Agosti, l’autrice di quegli scatti. Cresciuta in una famiglia laica, colta, progressista, in una foto la si vede sorridente con la macchina fotografica al collo davanti a un gigantesco manifesto che recita: “Un rinnovato impegno unitario”. «Chiaramente mi riconoscevo in quelle battaglie. Ma non ero una militante. Facevo il mio lavoro da fotoreporter» tiene a precisare. Così entrava da testimone nelle manifestazioni organizzate da femministe, studenti, sindacati. Tra le sue foto, oltre alle donne con le mani alzate e unite a triangolo nel simbolo della vagina, si trovano ritratte anche le operaie, le contadine, le madri con tanto di figli in braccio. Ci sono le ragazze con la minigonna e le donne di Orgosolo nei loro tradizionali abiti scuri. Era l’Italia a due velocità. Su cui l’onda sprigionata da quelle lotte si abbatté come un tornado, qualcosa di incredibile, inarrestabile. Era la lotta per i diritti. Prima di tutto per il diritto all’aborto, libero e gratuito, che arrivò nel 1978. Poi per la legge contro la violenza sessuale, per far diventare lo stupro un reato contro la persona e non contro la morale pubblica (ma diventerà legge solo nel 1996). Il personale era diventato politico.

Roma, 29 marzo 1980. Manifestazione nazionale per la consegna delle firme a favore della legge contro la violenza sessuale. @Paola Agosti
Altre foto ritraggono le mamme in piazza con i figli piccoli, capannelli di operaie, anziane militanti del Partito comunista che sorridono dietro gli striscioni, insomma tante storie di sorellanza. Era un mondo di donne che portavano avanti con orgoglio una gravidanza, che trasmettevano amore, che non nascondevano la loro età, che volevano conoscere il proprio corpo, ben consapevoli di ciò che si poteva fare. «C’era tanto entusiasmo, tanta allegria. Anche parecchia fantasia» continua Paola Agosti. «Gli slogan erano efficaci e divertenti». Lo stesso titolo del libro è tratto proprio da uno di questi (“Non rompetemi l’uovo, sto covando un mondo nuovo”). Ed è solo un esempio di come quella stagione di lotte, sia pure serissime, a volte dure, abbia saputo scegliere parole e frasi per dare forma a un nuovo immaginario e lasciare un segno nella storia.
L’inizio del backlash
E poi? Cosa è successo subito dopo? Già all’interno del movimento si erano aperti alcuni fronti. C’era l’anima di Rivolta femminile, quella di Carla Lonzi, Dacia Maraini, Ginevra Bompiani e Carla Accardi, che intendeva il femminismo come presa di coscienza, ricerca della liberazione personale. E c’era l’anima di chi «intendeva fare i conti con il marxismo e impegnarsi in un’azione politica» racconta Adele Cambria (prendo dal libro di Paola Agosti e Benedetta Tobagi). Punti di vista diversi, modalità diverse. La tradizione delle storiche battaglie per l’emancipazione, per la parità con l’uomo sul piano giuridico, economico e sociale non basta più alle nuove femministe che inseguivano la liberazione. «Un bel casino, ma vitale. Perché quando sono in ballo questioni così grosse, ancora tutte da sciogliere, è normale che si discuta» mi dice la storica Benedetta Tobagi, autrice dei testi, che si è specializzata sugli anni Settanta italiani, che sono stati anche gli anni delle stragi e del terrorismo. Un casino, proprio così, che forse ha portato il femminismo a ripiegarsi su sé stesso, a prediligere le riviste e i fogli militanti alle piazze, i gruppi di autocoscienza rispetto alle assemblee pubbliche, a dividersi in tante correnti. Ma non è stato quel dibattito a mettere il bavaglio al femminismo, a spegnerne il fuoco e l’entusiasmo.
C’era l’anima di Rivolta femminile, quella di Carla Lonzi, Dacia Maraini, Ginevra Bompiani e Carla Accardi, che intendeva il femminismo come presa di coscienza, ricerca della liberazione personale.
le donne escono dalle cucine
L’idea di partenza era coinvolgere tutte le donne. Tobagi racconta quello che successe dentro al movimento femminista romano: «Dare la parola direttamente alle casalinghe, perché potessero far sentire la loro voce e affermarsi come soggetti». Così, dal 1976, ottennero uno spazio di due ore al giorno nel palinsesto di Radio Città Futura. Mentre su Radio Donna, una volta alla settimana, il Collettivo Casalinghe curava il programma Le donne escono dalle cucine, in cui si parlava un po’ di tutto, dalla controinformazione alle questioni più pratiche, compresa la tutela legale. Un’esperienza che durerà ben poco: la radio venne incendiata e le donne aggredite una mattina del 9 gennaio 1979. Presto le tv private dell’era Berlusconi riportarono le donne dentro le loro case: «Tra programmi d’intrattenimento diurni e telenovelas, verranno fidelizzate come consumatrici e poi trasformate in fedelissime sostenitrici. Altro che liberazione» scrive Tobagi.

Roma, 11 dicembre 1978. Redazione di «quotidiano donna». @Paola Agosti
Era quello l’inizio, per l’Italia, del backlash? Di quel “contraccolpo” che fu ben più di un Grande freddo, di un ritorno alla dimensione privata. «Il femminismo andava a mettere in discussione, potenzialmente a scardinare, dinamiche di potere e simboliche, dietro le quali ci sono forti interessi materiali» mi spiega Tobagi. Quali? «Il fatto che le donne siano pagate meno, che svolgano gratuitamente una quantità di lavoro che se fosse in carico al welfare farebbe collassare i bilanci dello Stato. O, ancora, che si siano incatenate a ideali irraggiungibili di bellezza, di perfezione fisica, di performance che fanno perdere loro un sacco di tempo, di energie e di concentrazione, risorse che invece potrebbero investire in obiettivi di realizzazione politica, sociale ed economica». Così negli anni Ottanta, grazie anche alla tv commerciale e all’esposizione delle donne come soubrette o veline, strizzate in bikini o chiuse in scatole di vetro (per una carrellata si veda il documentario Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, in rete dal 2009), tutto ciò che richiamava i grandi temi del femminismo era percepito come negativo. E le femministe venivano associate all’idea di donne incattivite, arrabbiate, acide, sole. Una retorica rimasta realtà quotidiana fino a tutti gli anni Novanta del secolo scorso, e che persino la mia generazione, figlia del femminismo della liberazione degli anni Settanta, aveva in buona parte introiettato.
tutto ciò che richiamava i grandi temi del femminismo era percepito come negativo. E le femministe venivano associate all’idea di donne incattivite, arrabbiate, acide, sole. Una retorica rimasta realtà quotidiana fino a tutti gli anni Novanta del secolo scorso, e che persino la mia generazione, figlia del femminismo della liberazione degli anni Settanta, aveva in buona parte introiettato.
La tv commerciale e l’inizio del backlash in italia
Lo spiega bene un’altra storica, Vanessa Roghi, nel suo La parola femminista (Mondadori 2024): «L’informazione, l’intrattenimento, il varietà, la televisione degli anni Novanta e Duemila è il regno dei culi, delle tette, degli zigomi rifatti. A riguardare questi programmi si rimane basite di fronte a tanta incredibile arroganza. Da cosa nasce questa certezza di poterlo fare?». Roghi parla appunto del nostro, domestico backlash, di una trasmissione seguitissima dalle adolescenti, Non è la Rai, che andrà in onda fino al 1995. «Per tutte le ragazze sovrappeso, per tutte le bruttine, per tutte le insoddisfatte del proprio aspetto fisico, Non è la Rai è una sorta di evasione quotidiana, ma anche un pugno nello stomaco, una spinta a un’emulazione impossibile. […] Eppure, c’è chi si identifica, chi vorrebbe essere al loro posto ma anche loro amica, non solo per brillare di luce riflessa, ma perché in quei corpi esposti tutti insieme vede qualcosa che le ragazze dei primi anni Novanta non possono vedere da nessun’altra parte. Un collettivo femminile. Una repubblica autogestita dalle ragazze. Cosa importa se poi è un uomo di mezza età a dettare le parole, persino le reazioni emotive?» scrive.

Roma, 11 febbraio 1976. Manifestazione nazionale dell’Udi per l’occupazione. @Paola Agosti
Per capire cos’è successo al femminismo negli anni Ottanta il testo di riferimento rimane il volume della scrittrice e giornalista americana Susan Faludi: Contrattacco. La guerra non dichiarata contro le donne (ed. orig. 1991, tradotto da Baldini & Castoldi nel 1997). «Faludi parla di una vera e propria guerra non dichiarata, mossa da un sistema patriarcale che servendosi del discorso pubblico e quindi facendo leva sul discorso comune, attraverso l’informazione, i discorsi dei politici, il cinema e la televisione, ha instillato dubbi e rabbia contro il movimento femminista e il suo impatto sulla vita delle persone» scrive Roghi. Sono ancora gli anni di Reagan e del neoliberismo – la versione accelerata del capitalismo – della privatizzazione del pubblico e dell’ascesa di uno spiccato individualismo. «Che è esattamente l’opposto di ciò che è alla base del femminismo. Cioè l’idea che: “Se serve solo a te, non è femminismo”» spiega Tobagi. Il fatto di saper coinvolgere tutte le donne è una delle cose di cui si avverte maggiormente la perdita. «Dal punto di vista culturale, quella tendenza trova la sua icona in una donna come Margaret Thatcher che si poneva come: “Se ce l’ho fatta io, allora ce la possono fare tutte”. Un’idea che ancora oggi piace molto, ma che è l’esatto contrario del femminismo».

Roma, 14 marzo 1976. Trasmissione di Radio Donna. @Paola Agosti
“Se serve solo a te, non è femminismo”» spiega Tobagi.
Nata alla fine degli anni Settanta, la stessa Tobagi riconosce, con una punta di rammarico, di non avere conosciuto il femminismo da ragazza, come invece è capitato a me, alla mia generazione. Di essersi accorta solo a posteriori di avere assimilato quella retorica negativa sulle femministe che andava per la maggiore negli anni Novanta. Di essere rimasta folgorata dalla lettura di Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi solo più tardi, nonostante una laurea in Filosofia, perché aveva relegato quel volume tra le pubblicazioni ideologiche degli anni Settanta. «Invece», quasi mi confida, «è uno dei testi fondamentali e più attuali per capire come eravamo e come siamo».
Il femminismo oggi
E delle ragazze di Non è la Rai ce ne siamo davvero liberate? Quali modelli abbiamo oggi? «Nella postfazione di Covando un mondo nuovo lascio intendere come tante narrazioni degli anni Novanta abbiano “drogato” certi presupposti fondamentali. Penso a Sex and the city. Si parlava di liberazione sessuale, di masturbazione, di indipendenza. Ma in realtà Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte sono donne che vivono perennemente alla ricerca di un uomo, e dello sguardo di un uomo. E oggigiorno tante bambine e tante ragazzine, a detta proprio di chi lavora a stretto contatto con loro, crescono con certi ideali di bellezza, di competizione, e con il desiderio di dover soprattutto piacere» dice Benedetta Tobagi.
La parola “femminismo”, negli ultimi anni, ha ritrovato tutta la sua forza, soprattutto tra le generazioni più giovani. È accaduto con Ni una menos nel 2015 in Argentina, con la Women’s March negli Stati Uniti nel 2017, e più in generale con il movimento del #MeToo. In Italia, durante le manifestazioni del 25 novembre 2023, nella Giornata contro la violenza sulle donne, quando solo a Roma sono scese in piazza 500 mila persone per chiedere giustizia per Giulia Cecchettin. Ci si concentra sulla lotta ai femminicidi, sulla “visibilità” e sull’importanza del linguaggio, sull’educazione sentimentale, ma anche sull’empowerment, sul gender pay gap, sull’ageismo. «Già Alma Sabatini, grandissima linguista, era in piazza negli anni Settanta con il cartello “Vecchia è bello”, ed è stata la prima a scrivere una guida contro il linguaggio sessista» dice Tobagi. «In una certa misura, e secondo me anche senza rendersene conto, il femminismo di oggi ha saputo riallacciarsi alle battaglie della seconda ondata del femminismo degli anni Settanta».
La parola “femminismo”, negli ultimi anni, ha ritrovato tutta la sua forza, soprattutto tra le generazioni più giovani.
Il femminismo non è un brand (Einaudi 2024) è il volume con cui la scrittrice e giornalista Jennifer Guerra prova a fornirci qualche risposta sul femminismo di oggi e su cosa è diventato. Parla di pink washing, di slogan sulle T-shirt, di operazioni social come Freeda. Lo fa ripercorrendo la storia del femminismo per cercare di capire come è cambiato. Parla di diritti e di intersezionalità, lasciando spazio alle voci delle protagoniste. Vien da dire: bene le magliette con scritto “We Should All Be Feminists” purché dietro ci sia anche un lavoro di sostanza (e il noto discorso del 2012 della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie diventerà qualcosa di più, un bel libro sicuramente da leggere: Dovremmo essere tutti femministi, Einaudi 2015).
L’esperienza nei magazine
In realtà, Covando un mondo nuovo mi ha colpito (sorpreso?) per la sua bellezza, soprattutto mi ha ricordato i miei quattordici anni. Le salopette, i gilet, i capelli arruffati, la mia prima borsa di cuoio. Le visite al consultorio, la prof. di tedesco, con gonnellona e zoccoli di legno, che ci caldeggiava la lettura di Noi e il nostro corpo (il Boston Women’s Health Book Collective, edito da Feltrinelli nel 1974 e quindi nel 1977 in una nuova edizione riveduta e ampliata, all’epoca un vero e proprio long seller). Ma soprattutto, per me, il volume di Agosti e Tobagi è stata l’occasione per riflettere sul dopo, sul subito dopo. Sui miei vent’anni, sugli anni Ottanta, quando si è affermata una certa idea di modernità per le donne che poi così tanto moderna in realtà non era. Almeno, per me non lo è stata. E poi, più tardi, come giornalista, sui discorsi all’interno delle redazioni, tra colleghe, su cos’era stato il femminismo, su cosa ci aveva lasciato in eredità, su quali temi dare maggiore risalto per le donne del nuovo millennio. Ma ci sarà un’altra occasione per ritornare su questi temi.

Roma, 4 aprile 1977. Manifestazione contro i violentatori di Claudia Caputi. @Paola Agosti
Forse è proprio questo il vero motivo per cui Covando un mondo nuovo è rimasto per così tanto tempo sulla mia scrivania. Più che una gran bella testimonianza sul femminismo degli anni Settanta è subito diventato, per me, quasi una personale chiamata a rapporto sul dopo. «Ci sono casi in cui la legge è un puntello, ma poi il cambiamento sociale e culturale deve fare i conti con certi squilibri di potere profondi e radicati: per esempio, il patriarcato» mi dice alla fine Tobagi. «A me piace immaginare le conquiste raggiunte con alcune leggi come dei chiodi ben piantati su una parete di roccia. Ma la via per l’arrampicata è lunga. E presenta diversi gradi di difficoltà».
«A me piace immaginare le conquiste raggiunte con alcune leggi come dei chiodi ben piantati su una parete di roccia. Ma la via per l’arrampicata è lunga. E presenta diversi gradi di difficoltà».
Ecco. Ci ho messo qualche mese per capire il mio personale disorientamento davanti a un libro tutto sommato facile da cogliere nella sua naturale bellezza. Covando un mondo nuovo è uno di quei libri che ti esortano a fare un bilancio. Uno di quei libri che ti regalano una maggiore consapevolezza. La consapevolezza di oggi, come donna, di trovarmi ancora a mezza parete. Non da sola, certo. Ma ancora insieme a tante altre donne.