
Un po’ burattinaio, un po’ incantatore, ho incontrato lo scrittore inglese Edward Carey che mi ha raccontato di Edith Holler, la 12enne protagonista del suo ultimo romanzo
Edward Carey, l’autore di fiabe “dark”, è una persona simpatica e amabile, con gli occhiali tondi e il panciotto, da vero professore inglese. Quando gli dico che mi ricorda un burattinaio ride: «È proprio così. Per scrivere Edith Holler ho creato un piccolo teatro di cartone e mi sono messo a giocare con i personaggi, facendoli muovere e parlare». Giocare in inglese si dice “play”, come play è anche la parola che si usa per definire una rappresentazione teatrale. Niente di più azzeccato, penso, mentre lui sorseggia il secondo cappuccino della mattinata nella saletta di un hotel che affaccia sulla galleria Vittorio Emanuele, a Milano.
Carey, nato in Inghilterra e ora docente di scrittura a Austin, in Texas, è qui per presentare il suo ultimo affascinante e strano romanzo ambientato in un teatro: Edith Holler (La nave di Teseo, traduzione di Elena Malanga). Scrittore, drammaturgo e illustratore, Carey ha lavorato diverse volte per il palcoscenico: in Romania, in Lituania, persino con un maestro di teatro d’ombre in Malesia, poi al Young Vic Studio, al Battersea Centre e al Royal Opera House Studio di Londra. Predilige le atmosfere gotiche e fiabesche, le stesse che ritroviamo in alcune sue opere come Observatory Mansion, la trilogia di Iremonger o Nel ventre della balena – una rivisitazione di Pinocchio dal punto di vista di Geppetto. Sa che le fiabe possono essere terrificanti (e chiacchierando ovviamente è uscito anche il nome di Italo Calvino), e in più lui ci mette la sua anima “british” fatta di umorismo, fantasmi e atmosfere a volte cupissime, reminiscenze del teatro vittoriano, di Charles Dickens e di Shakespeare, ottenendo qualcosa di veramente originale.

Un romanzo sul potere dell’immaginazione
Ma veniamo alla trama. Edith Holler è una 12enne speciale. Fin dall’inizio l’autore ce la presenta come una ragazzina pallida, malaticcia, che per colpa di una maledizione non può uscire dal teatro in cui vive col padre e la sua famiglia composta da attori, tecnici e tutte quelle persone che lo fanno andare avanti. Una famiglia strampalata, e ancora più strampalata è la maledizione che le ha lanciato una vecchia attrice scontenta il giorno in cui è stata battezzata: se Edith Holler esce dal teatro questo crollerà. Come fa a vivere? Vi chiederete. Grazie alla sua fervida immaginazione crea storie e mondi. Proprio come fa un drammaturgo e uno scrittore. Questo gioco di specchi, una spirale di inesauribile creatività è solo l’inizio. Durante la sua reclusione nell’Holler Theatre, Edith scopre attraverso i libri e i documenti, che Norwich, il paese in cui vive, nasconde un terribile segreto che ha a che fare con la pasta di tarlo (sì fatta proprio con gli insetti), la specialità della zona.
Edward Carey e l’importanza delle fiabe
«Per scrivere Edith Holler ho provato a mettermi nella testa di una ragazzina, a far muovere i personaggi come avrebbe fatto lei. La letteratura ti consente di fare questo e altro, ma io mentre scrivevo questa volta, come le ho già detto, avevo un teatro giocattolo sulla scrivania. Mi piace questo aspetto infantile del gioco» mi spiega Edward Carey. «Quando i bambini giocano non usano esattamente la stessa sequenza che potresti trovare in una sceneggiatura. Loro mischiano. È come se, per esempio, Hamlet interagisse con Macbeth o con Oberon».
Lei era così anche da bambino?
«Assolutamente».
Nel libro ci sono i disegni dei personaggi: li ha fatti prima o dopo?
«Dipende. A volte li faccio prima, altre dopo. La scrittura è legata al disegno. Sono collegati, connessi».
E, tornando ai bambini, nelle fiabe per l’infanzia ci sono sempre i disegni.
«In fondo, Edith Holler è una fiaba. Ma le fiabe, originariamente, non erano racconti piacevoli per bambini; erano storie davvero oscure. Esploravano cosa significhi essere umani, le sfide da affrontare, i pericoli e i trionfi. Per esempio, se fosse la figlia maggiore in una fiaba, sarebbe destinata a una fine rapida e senza speranza. Ma come la più giovane, fragile e vulnerabile, sarebbe la vincitrice, quella che supera ogni ostacolo. È una storia di sopravvivenza, di come si debba imparare a vivere come esseri umani. Le fiabe sono sempre state brutali, strane, spietate. Se pensa ai fratelli Grimm, non a Christian Andersen che era un’eccezione, nelle fiabe c’è sempre una possibilità di sopravvivenza, ma ci avvertono dei pericoli del mondo reale. “Non entrare nel bosco” è un tema ricorrente, ma per crescere, a volte, è necessario avventurarsi in quel bosco.
Il teatro come esperienza
Cos’è invece il teatro per lei?
«Anche il teatro può essere un luogo pericoloso (lo diventa in Edith Holler) perché è la vita, distilla la vita in una storia, toglie tutte le parti noiose, che possono essere tante, cerca i piccoli ingredienti essenziali, li porta sul palco e ti dice: “Questo è l’esistenza umana”. E gli uomini e donne che guardano imparano cosa vuol dire».
Edith Holler, il suo romanzo, diventerà una piéce teatrale?
«Uno sceneggiatore a New York lo sta adattando, sta ancora scrivendo. Ho visto per ora solo il primo atto… è fantastico! Nella sua versione Edith è sempre sul palco mentre tutto il resto si muove intorno a lei».
Una fiaba sui bambini ma per gli adulti
Edith è lei da bambino?
«Ho scritto questo romanzo durante la pandemia, mentre ero a Austin, in Texas. Lontanissimo da casa. E mentre tutti i teatri del mondo venivano chiusi io pensavo a quello di Norwich, la città dove sono cresciuto, e dove ho frequentato per la prima volta un teatro. Da bambino per me Norwich era la città più grande del mondo: c’era la cattedrale, la strada principale che si chiamava London street e che secondo me portava a Londra. Tutte quelle cose che vedevo e che ho cercato di mettere nel romanzo. Insomma, io non potevo tornare a Norwich ma Edith poteva farlo per me. Eravamo entrambi bloccati, in modi differenti. Lei era me. Ed entrambi abbiamo fatto ricerche sulla città».
I ragazzi e i bambini sono i veri protagonisti qui. Gli adulti sono terribili o distanti.
«Durante la prima presidenza di Trump, ho pensato alle nuove generazioni, al loro futuro incerto. Preoccupazioni che si sono ancor più accentuate. Per questo ho deciso che questa doveva essere una storia di bambini, in un teatro, e che parlasse della loro fervida immaginazione. Si sviluppa come una fiaba qui la storia è quella di una bambina che cresce, diventa adulta, acquista consapevolezza. Il viaggio per diventare grandi passa attraverso una straordinaria metamorfosi».
A proposito di fiabe, ha letto Fiabe italiane di Italo Calvino?
«Adoro Calvino, ho letto Il barone rampante, Il cavaliere inesistente e altri. Le fiabe italiane sono incredibili, terrificanti. Anche Pinocchio di Collodi se ci pensa ha qualcosa di inquietante, un po’ come il Frankenstein di Mary Shelley. Le fiabe sotto sotto dicono la verità, dicono chi siamo».
Edward Carey e la sua esperienza da Madame Tussauds e con Harold Pinter
È vero che lei ha lavorato da Madame Tussauds e anche come portiere del teatro di Harold Pinter?
«Sì, appena finita l’università, come altre persone del resto, ho passato un periodo di grande incertezza. E mi si è presentata l’opportunità di lavorare da Madame Tussauds, un’occasione per me fantastica. Ero attratto da quelle statue, mi facevano simpatia più degli originali. Perché quelle bambole di cera avevano una dignità. Il mio lavoro consisteva nel sedere di fianco al suo autoritratto in cera e controllarlo: era una figura piccola, con un naso a punta, vestita di nera. Sembrava davvero un personaggio delle fiabe. Pinter invece l’ho conosciuto di persona perché ero il portiere del palco al Comedy theatre – che poi è diventato l’Harold Pinter Theatre dopo la sua morte – nel West end. Avevo le chiavi del teatro, dovevo togliere l’allarme e aprirlo tutte le sere. Lo sentivo quasi come mio. Harold Pinter arrivava, poteva essere estremamente generoso o terrificante. Una volta mi ha invitato a cena a casa sua per parlare di scrittura. Io, il portinaio! Era un genio: lo guardavo fare Hirst in Terra di nessuno e ogni sera era diverso. Per me è stato un privilegio vedere quest’uomo e il suo mondo creativo per così tante sere. Ho avuto una grande fortuna».
È questo che l’ha spinta a diventare drammaturgo?
«In verità scrivevo già. Amo il teatro e un paio d’anni dopo quella esperienza sono andato in Romania per mettere in scena un mio spettacolo e ho vissuto per un certo periodo dentro il teatro. Era un edificio dell’epoca di Ceausescu, brutto se confrontato ai teatri vittoriani. Era straniante vedere passeggiare i tuoi personaggi per i corridoi e nelle stanze. È stata questa esperienza la base per Edith Holler».