Anch’io ho seguito la vicenda della pugile algerina Imane Khelif durante le Olimpiadi di Parigi, insieme alle polemiche e alle divisioni che ne sono scaturite. Per quanto mi riguardava, sul ring c’erano due donne che combattevano e che colpivano la mia attenzione. Ed era tutto quello che mi interessava. Dopo quell’incontro sotto ai riflettori, ho iniziato poi a guardare altri match. Più osservavo le atlete sul ring, più mi immergevo nel mondo del pugilato femminile, dal quale fino ad allora mi ero tenuta lontana (e lo stesso valeva per quello maschile, che ho sempre considerato troppo violento per me da guardare). Ero affascinata da quelle giovani determinate a combattere fino all’ultimo per conquistare una medaglia, dalla loro grinta sorprendente, soprattutto considerata la loro giovane età e la corporatura esile e nervosa. Poco a poco ho imparato come si colpisce, come si calcolano i punti, come si schivano i colpi; ho capito che, oltre ai pugni, anche le gambe sono fondamentali e quanta fatica si concentra in quei pochi minuti di combattimento. Tuttavia, c’è una cosa che non riuscivo davvero a comprendere: cosa spinge una ragazza a voler affrontare un’avversaria a pugni, rischiando di farsi male, di subire colpi che possono danneggiare il volto, rompere il setto nasale o l’arcata sopraccigliare, piegare le costole o lesionare il seno.
L’ho compreso leggendo il libro di Rita Bullwinkel, La vita in pugno (Bollati Boringhieri). Un’opera straordinaria che vi consiglio. Bullwinkel ha scelto di ambientare la storia in un campionato di boxe che si svolge in due giorni a Reno, Nevada, nel 2020. Otto ragazze, giovanissime, che si battono a due a due per eliminazione diretta. Nella prima giornata ci sono Artemis Victor contro Andi Taylor, Iggy Lang contro la cugina Izzy Lang, Kate Heffer contro Rachel Doricko, Rose Mueller contro Tanya Maw. Sono agguerrite, aggressive, dominate dalla voglia di vincere, di dimostrarsi potenti, di essere qualcuno e anche di dimenticare la banalità della quotidianità. A poco a poco cadono, fino all’incontro finale tra due per decidere chi vincerà la Coppa Figlie d’America (il nome già dice tutto) per under 18.
Rita Bullwinkel offre una prospettiva unica dal punto di vista del pubblico, illuminata dai riflettori che inondano il ring. Come una telecamera, cattura i dettagli dei muscoli tesi, del sudore che imperla i volti, delle labbra gonfie, dei paradenti rossi, dei guantoni e dei caschetti, e dei colpi forti e precisi. Ma va oltre, penetrando nelle menti di queste giovani atlete, esplorando le loro storie, i sogni, i progetti e perfino il futuro. Qui risiede il suo vero talento.
Il punto debole di Artemis? «il fatto di avere un retaggio da mandare avanti. Le vittorie delle sue sorelle incombono su di lei. Le vengono costantemente ricordate. Questo è il torneo in cui può dimostrare di essere all’altezza di sua sorella maggiore o la peggior pugile della famiglia». Mentre Andi che combatte, cerca di non pensare al bambino di 4 anni che è morto sotto i suoi occhi durante la sua estate da bagnina. Non è riuscito a salvarlo ma forse sul ring può salvare sé stessa. Kate non vuole perdere l’incontro, «sta cercando di essere la migliore in qualcosa». «Il desiderio di compiacere gli altri è il desiderio di non essere diversi», scrive Rita Bullwinkell, e ci presenta Rachel coi capelli appiccicati alle tempie combattere come una furia con il pensiero che dopo l’incontro qualcuno la intervisti. Rose invece non ha rabbia negli occhi, sembra gentile, e la palestra che in futuro condurrà col marito è il coronamento del suo sogno.
Rita Bullwinkel ci offre un affascinante ritratto della vita, esplorando come le donne vengano spesso messe in competizione tra loro. Emergono desiderio, aggressività, piacere fisico nel dolore e nello scontro, adrenalina e la paura di deludere o perdere. Queste ragazze vogliono distinguersi, farsi notare e sfuggire all’indifferenza. Sentono di appartenere a un gruppo, combattono tra loro, ma potrebbero anche essere amiche. Alla fine, si apprezzano, si osservano e si ammirano, consapevoli di essere, nel momento del confronto, diverse da chi le guarda dall’esterno del ring. Gli spettatori vedono solo l’azione, ma non colgono la montagna di motivazioni e desideri che vi si cela dietro.